Pallini

Pallini.

All’autista la prima cosa che gli ho chiesto è stata: ma tu lo sai dov’è il capolinea, eh, lo sai? Lui mi ha fatto sì con la testa, mi ha fatto. Bene, gli ho detto, è lì che devi portarmi. Che devi portarmi, gli ho detto. Lui ha fatto nuovamente sì con la testa, ha messo in moto, uno di quegli autobus con il volante che sembra il timone di una nave, ma sdraiato, inclinato di tanti gradi, che adesso non saprei dire quanti, di una nave, proprio. Uno di quegli autobus grandi e gialli che non pensavo ce ne fossero ancora in circolazione, non pensavo. Che una volta, all’epoca ero già un uomo d’una certa età, portavo giacche spigate anche d’estate, pantaloni di velluto, a coste larghe, molto larghe, ma solo d’inverno, molto larghe, montai sopra uno di questi autobus grandi e gialli portandomi appresso un carrello della spesa, proprio un carrello del discount, proprio, dove andavo a far compere, a prendere i cartoni del latte, e pure pasta e biscotti e caffè con lo sconto del trenta per cento, ché la convenienza è sempre stato un mio pallino, uno dei tanti, ché se dovessi star qui a contarli, i miei pallini, si farebbe notte, poco ma sicuro, e pure mia madre ne avrebbe da raccontare, dei miei pallini, mia madre, se fosse viva, Dio mi perdoni ma è stato un sollievo per tutti quando lei se n’è andata, non aveva più senso, non nelle sue condizioni, voglio dire, non aveva più senso, non aveva.
E insomma.
Quel giorno, quel giorno lì, misi piede sull’autobus grande e giallo portandomi appresso il carrello e tutto il resto, il carrello della spesa, e a un certo punto qualcuno iniziò a far storie, iniziò, a far storie, a protestare per non so bene cosa, e non è che sto sempre lì a preoccuparmi di ciò che la gente pensa di me o di quello che sto facendo o delle proteste più o meno spontanee che suscitano i miei comportamenti, però quel giorno lì pensai che fosse un po’ troppo, ne avevo proprio abbastanza, era un po’ troppo, così mi avvicinai a un tizio dall’aria molesta e gli dissi chiaro e tondo che ne avevo abbastanza, chiaro e tondo, ne avevo abbastanza delle sue proteste, del suo modo di fare, così gli dissi di levarsi dai piedi, di scendere subito da quell’autobus, gli dissi, e gli dissi pure che non gliel’avrei ripetuto una seconda volta, che non avrebbe avuto un’altra opportunità, ché non ero il tipo da concedere qualcosa a qualcuno, gli dissi, ché non avevo mai concesso niente a nessuno, neanche a mia madre, Dio mi perdoni ma è stata davvero una liberazione per tutti quando lei se n’è andata, non aveva più senso, non nelle sue condizioni, voglio dire, non aveva più. Senso.
E insomma.
Che cosa sia successo dopo, su quell’autobus grande e giallo, uno se lo può anche immaginare. Mi son divertito, mi sono.
E insomma.
Io adesso gliela racconterei pure, questa storia, all’autista. Pure. Ma credo non abbia il senso dell’umorismo. No che non ce l’ha. Lui non capirebbe. Ecco tutto. Non capirebbe. Ecco tutto. Spero che tu sappia dov’è il capolinea, spero, gli ho ripetuto prima di mettermi comodo, seduto alle sue spalle. Lui mi ha fatto sì con la testa, nuovamente, mi ha fatto, sì con la testa. E solo allora mi son messo comodo, ché la comodità è sempre stata un mio pallino, uno dei tanti, ché se dovessi star qui a contarli, i miei pallini, si farebbe notte, si farebbe. Notte.

 

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