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Quest’anno pure, non esco

Quest’anno pure, non esco.

No, non ne ho voglia. È inutile che insistiate: quest’anno pure, non me la sento.
In verità è già da tanto che non me la sento più, che non mi va. Ma quest’anno ho deciso: non mi muovo da qui.
E che vi costa? Su, lasciatemi stare con i miei affanni, con le mie pene, coi miei pensieri. Pensate forse che non ne abbia? Pure se sono un simulacro di legno, ne ho di pensieri e di preoccupazioni, altroché.
Mi dispiace. È inutile che insistiate.
Quest’anno non ne ho voglia. Non ho voglia di tutti quegli occhi che mi guardano, di tutte quelle facce, di tutte quelle mani che vorrebbero toccarmi, sfiorarmi appena. Non mi va di fare festa, non mi va di perdermi in questo oceano di gente che forse neppure sa chi sono e da dove vengo.
E poi, santo cielo, che volete ancora da me?
Non ho più voglia di ascoltare le vostre richieste. Mi avete stancato. Siete ripetitivi. Siete dei fanfaroni, dei buoni a nulla. State lì a combinarne di tutti i colori. Ogni santo giorno. Non vi amate, ma chiedete amore. Non vi rispettate, ma esigete rispetto. Non vi aiutate, ma sollecitate aiuto. Ogni santo giorno.
Poi però il primo maggio vi svegliate, vi vestite e venite da me. Riempite le strade a migliaia. E pretendete d’essere ascoltati o d’essere accontentati. Ogni anno la stessa storia. Ogni anno, al primo di maggio. Chi a supplicare una grazia, chi un posto di lavoro, chi una guarigione, chi una buona parola presso il padreterno, chi un terno al lotto, chi uno scudetto, chi un altro mandato politico, chi un altro mandato da banchiere, chi un altro mandato condominiale, chi una moglie, chi un marito, chi un figlio, chi i soldi per comprarsi un fuoristrada, chi i soldi per comprarsi una casa, chi i soldi per comprarsi una barca a vela, chi i soldi per comprarsi lo smartfòn.

Ma, dico, per chi mi avete preso?
Io già vi ho accontentato. Mo’ basta.

Vi tolsi la peste, d’accordo. Lo feci perché mi stavate simpatici, e perché a quei tempi ve la passavate male. Siete stati gentili a ringraziarmi, a manifestare la vostra devozione. Ve ne sono profondamente grato.
Vi salvai da anni di carestie e di siccità, d’accordo. Lo feci perché non avevate colpa. E perché tra voi c’erano tante donne e tanti bambini.
Vi salvai pure dalle bombe dei francesi, è vero. E ancora mi fa una rabbia. Ma, dico, non sarebbe stato meglio arrendersi e trattare con i veri rivoluzionari, piuttosto che finire tra le grinfie dei piemontesi disboscanti? Invece no. Tutti a chiedere un gesto miracoloso. Tutti a scongiurare. Poi lo avete visto com’è andata, no? E continuate pure a ringraziarmi. Cose da pazzi.
Ma adesso basta. Non ne posso più. Mi avete stancato.

E io vi prego.
Sì, una volta tanto sono io che prego voi.
Vi prego: non ne ho voglia.
Lasciatemi qua, non fatemi uscire.
È dal milleseicentocinquantasette che mi sballottate avanti e indietro. Pure sotto i bombardamenti della guerra mondiale mi avete fatto uscire. Ora basta. Non ne posso più.
Questa festa non è più la mia festa. Questa è la festa di chi si fa bello con la mia festa. Questa è la festa delle vanità. Questa è la festa dei mistificatori.
Io lo so, chi tra voi mi vuol davvero bene. Io lo so, chi tra voi ha l’anima avvolta da petali di rosa. Ma, abbiate pazienza, non ce la faccio più. Nemmeno per voi.
Lasciatemi qua. Oggi non ne ho proprio voglia.
E se proprio è necessario, se proprio volete portarmi da qualche parte, portatemi a Nora. Ma non adesso. Un altro giorno. Tra un mese. O magari in autunno. Senza grandi clamori, però. In silenzio. Come se non ci fossi. O come se fossi un canto. Come se fossi di ossa e carne. Come se non mi chiamassi Efisio.

 

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