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Semplicemente dylaniani

Semplicemente dylaniani.

Se c’è una cosa che mi ha sempre colpito di Bob Dylan, oltre alle sue canzoni e alla sua arte, ovviamente, sono le storie più o meno strampalate e gli aneddoti più o meno divertenti che circolano su di lui, sulla sua vita e sulla gestazione delle sue opere. Alcuni episodi sono davvero esilaranti, altri rispecchiano l’ironia sottile e quel particolare nonsense che fa di Dylan uno degli artisti più geniali degli ultimi due o tre secoli. Altri ancora non saprei definirli. Semplicemente dylaniani, direi.

Giornalisti e pupazzi.
Una volta, nel ’66, durante la tempestosa e contestata tournée europea con The Hawks, che poi sarebbero diventati The Band, Dylan si presentò a una conferenza stampa a Parigi con un pupazzo ventriloquo. I giornalisti francesi, che prendevano le cose molto seriamente, cercarono di capire dove diavolo volesse andare a parare questo provocatore americano. Gli chiesero: “Perché hai un pupazzo?”. E Dylan rispose: “È lui che mi ha seguito”. 

Plagiario?
D’altronde Dylan non è mai andato tanto d’accordo con i giornalisti; alti e bassi, molti bassi e pochi alti. Ma è altrettanto vero che andare d’accordo con Dylan non è roba semplice. La cantautrice canadese Joni Mitchell, per esempio, deve avercela con lui per qualche motivo. I due un po’ si amano e un po’ si odiano. Una volta, mentre lei gli faceva ascoltare il suo nuovo disco, lui si addormentò. Joni Mitchell non la prese bene. Qualche decennio dopo, riferendosi a Dylan disse: “È un plagiario, un bluff. Abbiamo spesso cantato insieme ma non si lava mai i denti. Una sera avevo il suo alito addosso alla mia faccia, be’, praticamente mi ha spinto via dal microfono”.
Colgate oblige.

Odds and ends.
Dylan è riuscito a far perdere le staffe anche a un tipo tranquillo come Mark Knopfler, che gli ha prodotto Infidels, disco pubblicato nel 1983. Quel disco, inizialmente Dylan voleva farlo produrre a Frank Zappa. Una notte Dylan si era presentato in modo del tutto inatteso a casa di Zappa, aveva citofonato e aveva detto: “Sono Bob”. “Bob chi?”. “Bob Dylan”. Frank Zappa lo aveva fatto entrare, aveva ascoltato alcune demo e dopo un paio di ascolti aveva scosso la testa: “Mi dispiace, Bob, non è roba che fa per me”. Così Dylan si era rivolto a Knopfler, con il quale aveva già collaborato nel ‘79 durante le incisioni di “Slow Train Coming”. Knopfler mise su una band di prim’ordine e in pochi mesi il disco venne completato. Nella versione (quasi) definitiva figurava anche uno dei brani più intensi e poetici scritti da Dylan, “Blind Willie McTell”, un vero capolavoro. Restava soltanto da completare il missaggio dell’album. Knopfler, che aveva urgenza di rientrare a Londra, lasciò al tecnico il compito di ultimare il lavoro. Un bel giorno, però, piombò in studio Dylan e decise di rivoluzionare un po’ le cose. Prima cacciò il tecnico e smanettò maldestramente sui cursori del mixer, poi, chissà mai perché, decise di eliminare dall’album “Blind Willie McTell”, la preferita del produttore. Quando il disco fu pubblicato, a Knopfler quasi venne un colpo. Era talmente incazzato con Dylan che per alcuni anni evitò di rivolgergli la parola. Un giorno il giornalista Larry “Ratso” Sloman chiese a Dylan: “Ma perché hai lasciato fuori quella canzone?”. “Dài”, rispose lui, “va bene così. Ho inciso centinaia di canzoni, una in più non cambia molto”.

Buon sangue non mente.
Larry “Ratso” Sloman nel ’75 era un giovane inviato di “Rolling Stone” e seguì e documentò ogni tappa del Rolling Thunder Revue, un tour di concerti tenuti fra l’autunno di quell’anno e la tarda primavera del ’76 da un gruppo di musicisti capeggiati Dylan e riuniti in carovana itinerante attraverso gli Stati Uniti. Da quel tour sono stati tratti molti libri (uno dello stesso Sloman, un altro del regista, commediografo e attore Sam Shepard, anch’egli imbarcato con la Rolling Thunder) e almeno tre film/documentari, il monumentale e sperimentale “Renaldo and Clara” (cinéma vérité di oltre 4 ore) diretto dallo stesso Dylan, lo speciale TV “Hard Rain” e “Rolling Thunder Revue: a Bob Dylan story”, di Martin Scorsese. Nel libro di Sloman gli aneddoti abbondano. Uno su tutti, la reazione di Jesse Dylan, primogenito di Bob, che all’epoca aveva appena 9 anni, quando gli dicono che nei paraggi c’è la cronista di un qualche magazine locale: “Non lo sapevo che era una giornalista, mi sembrava una persona normale”.
Chissà da chi ha preso, il piccolo Jesse.

Homeless.
Di storie attorno a Dylan ne girano così tante. Chissà se sono tutte vere, poi. Di sicuro qualche anno fa se la vide brutta con la Polizia del New Jersey. Una sera di luglio del 2009 alcuni abitanti della zona di Long Branch segnalarono per telefono la presenza di un tipo sospetto nel quartiere. “C’è un tizio vestito male, sembra un barbone, è da un po’ che gironzola qua intorno”. In pochi minuti arrivò una pattuglia. Due agenti fermarono il sospetto e gli chiesero i documenti. “Non ho documenti con me. Sono Bob Dylan. Domani ho un concerto qui nel New Jersey. Sto dicendo la verità. Potete chiamare l’albergo e parlare con il mio staff”, rispose lui. “Certo, certo”, pensarono i poliziotti. E tra vedere e non vedere lo portarono alla stazione locale, dove qualche ora dopo il caso fu comunque risolto grazie all’intervento dei manager di Dylan. Seguirono inoltre doverose scuse da parte dei poliziotti. Che cosa ci facesse Dylan in giro nel cuore di una calda notte di luglio, nei sobborghi di Long Branch, è presto detto: “Stavo cercando la casa dove è nato Bruce Springsteen”, spiegò lui. 

Le storie e gli aneddoti su Bob Dylan, a quanto pare, dicono che ci si può imbattere casualmente in Bob Dylan in tanti modi, senza dover essere necessariamente agenti di polizia. Anzi, a volte è capitato che fosse lo stesso Dylan a voler incappare negli altri. 

“Do you believe in Jesus?”.
Keith Green è stato un cantautore cristiano che ha conosciuto Dylan durante la sua fase di “conversione” religiosa, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80. Green, nella sua biografia, ha raccontato di quanto Dylan fosse devoto e di quanto cercasse di diffondere ovunque la Parola di Cristo. “Una volta”, ha rivelato Green, “Dylan ci disse che amava raccogliere gli autostoppisti e parlare a loro di Gesù. Non l’hanno mai riconosciuto perché lui guidava una vecchia macchina malconcia e indossava un berretto da sciatore”.
Insomma, in quel periodo doveva essere un bel rompicoglioni, almeno quanto quelli che cercavano di incontrarlo o di strappargli un autografo.

C’è anche da dire che, per lo più, si dipinge Dylan come persona burbera e inavvicinabile. Ogni tanto però bisognerebbe mettersi nei suoi panni (anche quelli un po’ trasandati che indossava nella suddetta notte del New Jersey) per capire quanto sia rognoso e faticoso essere Bob Dylan. A volte nemmeno i suoi più stretti collaboratori sembrano intuirne gli umori. 

Perché?
Nel ’74 il promoter Bill Graham organizzò il Tour del grande ritorno ai concerti di Bob Dylan & The Band dopo otto anni di assenza dal palco. Nei giorni precedenti il debutto, Graham riteneva che Dylan fosse nervoso e avesse bisogno di tranquillità. Così disse ai tecnici e allo staff del Tour di tenersi a debita distanza da lui. Il personale obbedì fedelmente. Dopo la quarta tappa, nel cuore della notte, Graham racconta che qualcuno bussò alla porta della sua camera d’albergo. Aprì ed era Dylan. Entrò e rimase in silenzio, si vedeva che c’era qualche problema. “Va tutto bene, Bob? Qualcosa non va?”, chiese. Dylan fece una pausa poi disse: “Bill, perché nessuno qui mi rivolge la parola?”.

“Devo andare, devo andare!”.
Ma tra le storie più curiose e assurde c’è sicuramente quella che riguarda Seamus McGarvey, direttore della fotografia di numerosi film, collaboratore, tra gli altri, di Tim Roth e Oliver Stone. Racconta che una ventina di anni fa era in Messico per girare un documentario. Di rientro in California, un lungo viaggio in auto, si fermò a casa di un amico musicista. Quando arrivò, l’amico gli disse: “Capiti nel momento giusto, ho invitato Bob Dylan a cena”. Dylan giunse poco dopo. Notò la presenza di McGarvey, che non conosceva, e subito, diffidente, si infilò il cappuccio della felpa. Per l’intera durata della cena, Dylan parlò poco e con il volto semicoperto. Poi si mise a suonare la tastiera di un bambino e a cantare una vecchia canzone gospel. Alla fine, dopo alcune ore, se ne andò senza tanti convenevoli. Qualche istante dopo bussarono alla porta. Dylan era lì, in piedi lì, senza il cappuccio. Disse: “Ho poca benzina nel camion. Qualcuno può accompagnarmi alla stazione di servizio?”. McGarvey capì che Dylan aveva timore di farsi riconoscere al distributore, così si offrì volontario. Saltò sul camion di Dylan e insieme si diressero alla periferia di Los Angeles. Guidarono in silenzio oltrepassando una stazione di servizio dietro l’altra. McGarvey continuava a ripetere: “”Bob, quella è una stazione di servizio, ci fermiamo?”. Ma niente. Sembrava non avere intenzione di fermarsi. Poi Dylan disse: “Ne conosco una, più avanti”. Alla fine, si era fatta ormai l’una del mattino, entrarono in questa stazione. Dylan diede a McGarvey la sua carta di credito e gli chiese di fare il pieno. Qualche minuto dopo, mentre stava per risalire sul camion, Dylan lo guardò e gli disse: “No, amico, devo andare, devo andare!”. Diede gas e si lanciò verso l’autostrada lasciando McGarvey da solo sul piazzale. “Non avevo un centesimo in tasca”, ha raccontato cinque anni fa. “Da un telefono a gettoni ho chiamato il mio amico musicista e mi sono fatto venire a prendere. Ho anche dovuto chiedere alla cassa del distributore dove mi trovassi esattamente, perché non ero mai stato prima a Los Angeles”. Qualche tempo dopo l’episodio, McGarvey iniziò a lavorare con Dylan. “Ma non gli ho mai parlato di quella strana notte”.
Non stento a crederci.









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