Carteggi (17)

Carteggi (17).

Ciao, ti scrivo dalla terrazza di una locanda che ho trovato ieri notte lungo la strada per raggiungere il confine. Alle mie spalle c’è il mare; davanti, una vallata deserta. Sorseggio un caffè amarissimo e ho l’impressione che non riuscirò a smettere di fumare. Adesso il sole è già alto, fa caldo e tra meno di un’ora sarà mezzogiorno. Il viaggio sembra interminabile, ma non ho fretta. La proprietaria della locanda, una donna sulla settantina con una capigliatura bizzarra, occhiali scuri e una vestaglia color rame, poco fa si è avvicinata e mi ha raccontato che, non lontano da qui, c’è un paese che non è più un paese. Lo era qualche tempo fa, al tempo del padre di suo padre. Ora, di questo paese, sono rimaste soltanto le case. Case di ogni genere, palazzine popolari e ville nobiliari, case senza tetto, case demolite, case sospese, case senza più finestre o balconi. Case mute. Sono rimasti anche gli scheletri dei lampioni e i marciapiedi. E un cartello stradale sforacchiato, un grande cartello rettangolare consumato dalla ruggine, con dei buchi larghi come occhi di bue. Sono rimasti i silenzi. E nei silenzi il vento s’insinua, sussurra storie che nessuno ha più voglia di ascoltare. Storie di amori, storie banali, storie di ladri, storie crudeli, storie di musiche e storie speciali. C’è un paese, non lontano da qui, dove un tempo ci venivano a vivere perfino i padroni delle grandi compagnie, mi ha detto la donna. Arrivavano coi loro bei vestiti e con le loro carrozze lucide, i padroni. Sembravano usciti dalle pagine di un romanzo. Erano sorridenti e imbellettati, indossavano sciarpe di seta e mocassini. A sentire chi se lo ricorda, mi ha detto la donna, era un bel paese, questo paese che adesso non c’è più. Prima di non essere più un paese, aveva anche un nome, ma non chiedermi quale sia, la donna non me l’ha voluto dire. Era un paese nato ai piedi di una montagna svuotata. C’erano uffici, bar e biblioteche. C’erano banche, negozi e trattorie. C’erano scuole, asili e giardinetti. C’era il barbiere, c’era il macellaio. E c’era chi scavava tra le rocce e l’argilla. C’era il droghiere, c’era il farmacista. E c’era chi misurava il tempo a binari. C’era il soldato tornato dalla guerra, c’era una quercia al centro della piazza. C’erano donne giovani e belle, la luce nei sorrisi e la speranza negli occhi. C’erano mamme severe e signorili, le gonne larghe e il seno esuberante, e tanti bambini tenuti per mano. A sentire chi se lo ricorda, c’era anche un sindaco. Un uomo piccolo e tondo, le orecchie a sventola e i baffi da re. Il suo nome era Giacinto, ma tutti lo chiamavano signor Sindaco. Non s’è mai sentito d’un sindaco chiamato per nome, mi ha detto la donna. Giacinto, figlio di Vittorio e nipote di Giacomo, piccolo e tondo com’era, sembrava un istrice. Ma senza aculei. A sentire chi se lo ricorda, Giacinto non rideva mai. Nemmeno con gli amici. Proprio mai. Forse rideva in famiglia. Forse rideva insieme alla moglie, Annunziata, il volto pallido, le gambe secche e i capelli neri, lunghi e sottili. Una donna senza destino, così sembrava la moglie di Giacinto. Anche lei non rideva mai. Forse rideva insieme ai figli, due bambini, entrambi tondi e piccoli, proprio come il sindaco, ma senza baffi da re. A sentire chi se li ricorda, mi ha detto la donna, quei bambini non ridevano mai. Forse ridevano insieme agli altri bambini, che correvano e schiamazzavano nei cortili illuminati dal sole di giugno.
Avrei voluto saperne di più, di questo paese che non è più un paese, di questi bambini nei cortili, dei lampioni, dei vicoli, di Giacinto, Annunziata e dei padroni delle compagnie. Ma niente. A un certo punto, la proprietaria della locanda mi ha guardato e, così come aveva iniziato a raccontare, senza che le avessi chiesto alcunché, all’improvviso è rimasta in silenzio, si è sistemata gli occhiali e, dopo un po’, se n’è andata, lasciandomi sul più bello.
Pazienza.
Tra un paio d’ore sarò di nuovo in viaggio. Ti scriverò domani, forse.
Su un giornale ho letto la notizia che avrebbero intenzione di chiudere le prigioni, perché sono uno dei pochi posti dove si può dormire e mangiare gratis. Che dire? Non me ne va bene una.
A presto.
Tuo, Q.







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